Perché

A me piace leggere, scrivere e correre. Ultimamente riesco a scrivere solo racconti o considerazioni legate alla corsa. E cerco di scovare racconti o romanzi legati in qualche modo alla corsa. E, appena posso, corro. Speriamo non sia grave.

martedì 11 ottobre 2011

La Maratona di Firenze 2010 - 7

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5km


Siamo alla fortezza, la prospettiva sulla discesa del sottopasso mi offre una sorta di ingorgo, il traffico di centinaia di persone che riempiono tutte le quattro corsie disponibili, ma non dobbiamo rallentare né fermarci, il flusso è continuo, solo apparentemente è più denso rispetto al resto dei viali. Noto con fastidio che per colpa del sottopasso alla discesa segue una salitella breve ma pur sempre una salita.
Nel sottopasso della ferrovia subito dopo ci sono passanti che, approfittando di quel comodo riparo dalla pioggia, ci osservano e ci incoraggiano. Non avevo mai considerato quel tratto di strada, solitamente trafficatissimo e nero per lo smog continuo. È un non-luogo, e se ci vedo qualcuno camminare lo compatisco perché sta respirando solo gas di scarico. Di nuovo una leggera salita, è una sensazione nuova, di solito quel tratto lo  percorro nel senso opposto, quindi in discesa, e soprattutto in auto.
Mi tengo sulla destra, all’altezza di Porta a Prato gireremo a destra in via Ponte alle Mosse. Siamo quasi alla porta e sento alla mia destra: Hi Marco, how are you?
È Aaron, l’amico di Beppe, il campione dell’understatement, di solito ha un paio di pantaloncini color prugna larghi e stropicciati, e una maglia qualsiasi, quasi che fosse uscito a comprare il giornale una pigra mattina d’estate, ma torno subito a casa. Stavolta è un po’ più vestito, ha un sorprendente calzamaglia lunga e una maglia tecnica, niente cappellino né gilet impermeabile, ci mancherebbe altro. Mi sorride sereno e sorpreso. Sorpreso sono io che mi abbia riconosciuto, ci siamo visti solo un paio di volte, sono vestito in modo diverso e ho pure il cappellino in testa. Boh, forse è stato proprio il cappellino a farmi riconoscere. Ma se ce l’hanno tutti un cappelino con visiera o senza, o una pezzuola o un cappuccio. Insomma resta un mistero ma Aaron mi ha riconosciuto. Scambiamo un paio di frasi, gli chiedo se ha visto Beppe, poi gli sorrido e lo lascio libero di proseguire, mi saluta sorridendo e si allontana per via Ponte alle Mosse.
Comincio a prepararmi per vedere e soprattutto farmi vedere da Elena, che dovrebbe essere all’angolo con via Paisiello, in pratica a cinquanta metri da casa, via Paisiello è la mia strada per le Cascine ogni volta che esco da casa per un allenamento. Questo era il motivo per cui nel mio appunto del giorno prima avevo annotato il possibile orario di passaggio in via Paisiello, per ricordarlo a lei. Il gruppo è piuttosto folto anche perché la via si restringe, non so in che punto si sarà messa, se fosse stata logica si sarebbe messa sull’esterno della curva diciamo sull’angolo con via Benedetto Marcello, in modo da vedere bene il gruppo che arriva e avere una visuale più a lungo. Se mi metto a destra le passerei più vicino, però la traiettoria ottimale sarebbe a sinistra. Se però non fosse dove ho pensato io, che era fin troppo logica come soluzione, se sto davvero a destra e poi lei è a sinistra va a finire che non mi vede. Sto nel mezzo, cercando di non tenermi troppo sotto il gruppetto che mi precede e lasciare un po’ di spazio senza ostacoli davanti a me.
Ecco la curva, l’Osteria de’ Golosi dove andiamo a pranzo di tanto in tanto, il semaforo con via Benedetto Marcello e Elena non c’è né a destra né a sinistra, non posso rallentare o fermarmi, non c’è e basta, imbocco via Paisiello e via verso le Cascine. Cerco di non rimanerci troppo male, si era svegliata presto quando mi sono alzato io e poi ha avuto problemi a riaddormentarsi e quando alla fine si è riaddormentata a quel punto ha fatto tardi, anche perché poi le ci vuole un’ora per lavarsi e prepararsi, non ce l’ha fatta, non stava neanche bene. Ora che ho giustificato la sua assenza sono più tranquillo. Siamo al Dopo-Lavoro Ferroviario, radi passanti ci osservano dal marciapiedi. Alessandra e Roberto mi avevano chiamato apposta ieri sera, se non fosse piovuto sarebbero venuti a vedermi proprio qui, tra il DLF e la Manifattura dei Tabacchi, in fondo alla strada. Ma piove, di certo non sono venuti con la bambina nel passeggino. Ciononostante guardo con attenzione ogni passante, giriamo a sinistra verso le Cascine senza incontrare nessun volto noto.
Al piazzale delle cascine si gira sulla destra costeggiando la facoltà di Agraria e è difficilissimo scansare le lagune che ci sono, anche perché sei sempre in gruppo, quando vedi quello davanti a te che infila dentro una pozza schizzando ovunque, è già troppo tardi, tanto c’è sempre qualcuno alla tua destra o alla tua sinistra che ti impedisce di fare scarti troppo repentini. Però io lo so che lì ci sono sempre delle pozzanghere immense, soprattutto sulla curva e dopo, dove parcheggia l’autobus, e allora allargo un po’ la traiettoria evitando di tenere come al solito la corda.
Le Cascine. Che differenza dall’anno scorso, a questo punto ero al trentunesimo chilometro, proprio davanti alla facoltà di Agraria mi aspettava Leonardo, ricordo ancora il sollievo, quasi la commozione, quando lo riconobbi che mi aveva visto e si era tolto la giacca lasciandola alla fidanzata, poi oltrepassò la striscia bianca e rossa per affiancarmi e accompagnarmi fino alla fine. Di lì a poco avrei avuto una crisi, psicologica e poi fisica con una serie di crampi. Se non ci fosse stato lui non ce l’avrei fatta.
Invece stavolta siamo ancora freschi, abbiamo fatto sì e no 8 chilometri, a un’andatura di 5.25 che per questa distanza è di tutto riposo, anzi di solito comincio a entrare a regime adesso. E infatti è un piacere (o quasi) passare i viali alberati fino al monumento dell’Indiano per poi costeggiare l’Arno. Quante volte sono passato da qui, a tutte le ore del giorno, in tutte le stagioni.
Anno scorso il 28 dicembre nevicò e io non volli perdermi lo spettacolo delle Cascine tutte bianche, mi vestii pesante, berretto, guanti e via. L’unica cosa un po’ esposta erano proprio i piedi, dato che le scarpe da corsa sono ovviamente molto leggere e traforate. Dall’ippodromo, dove il viale è chiuso alle auto, c’era solo la scia di qualche motorino e dovevo correre con attenzione nel solco per non affondare in dieci centimentri di neve, incontrai tre o quattro runners e qualche nonno con il nipotino a toccare la neve.
E quando quest’estate sono venuto dopo l’uragano che aveva abbattuto decine di alberi vecchissimi, e qui lungo l’Arno non si riusciva neppure a passare, tanto che dovetti correre lungo il sentiero sull’argine per evitare tutti gli alberi che erano caduti verso il viale, completamente invaso dalle loro chiome.

Siamo al nono chilometro, tra un po’ ci sarà il primo ristoro. Apro il primo minipack e me ne spremo come con un dentrifricio quasi metà ma lentamente, in modo da ingerire un piccolo sorso per volta.
Il tratto che costeggia l’ippodromo è in leggera salita, me ne sono accorto l’anno scorso quando al trentaduesimo chilometro questa ulteriore piccola difficoltà mi aveva messo in crisi. Da allora tutte le volte che sono passato da questo viale che arriva a costeggiare il Mugnone che si getta in Arno all’altezza del ponte all’Indiano, ho ripensato che si tratta di una salita, un grado forse, ma di salita, e dirò di più: io riesco a vederla la salita, mentre non vedo la discesa quando lo percorro in senso opposto, ma penso soltanto di correre con grande facilità e invece si tratta di discesa, al contrario la salita riesco a vederla e a sentirla. Per poi riscendere leggermente per un centinaio di metri fino al curvone in corrispondenza del busto cosiddetto dell’Indiano per continuare lungo il fiume.


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