Perché

A me piace leggere, scrivere e correre. Ultimamente riesco a scrivere solo racconti o considerazioni legate alla corsa. E cerco di scovare racconti o romanzi legati in qualche modo alla corsa. E, appena posso, corro. Speriamo non sia grave.

venerdì 4 novembre 2011

La Maratona di Firenze 2010 - 15

Puntata precedente

42.195km e oltre


L’arrivo, stavolta non lo faccio lasciando che tutti mi sorpassino come l’anno scorso, stavolta resisto e aumento la velocità sia pur di poco tanto da superare almeno qualcuno.
Tappeto azzurro.
Per timore di essere irriconoscibile nelle foto, almeno all’arrivo, mi tolgo il cappellino, ma non lo getto come molti altri hanno fatto a giudicare dai tanti cappellini che giacciono sul tappeto fradicio, al mio cappellino Nike ci sono affezionato e non lo mollo ma lo tengo in mano, e l’altra me la passo tra i capelli fradici incollati alla testa con la forma del cappellino, per aggiustarmi, come se in queste condizioni fosse possibile farmi bello per la foto all’arrivo.
Il pubblico, la colonna sonora, la felicità, sento annunciare il mio nome, il tempo sul display ufficiale dice 4 ore 13 minuti, ma il mio Garmin dice 4 ore e 9 minuti, quello che si dice “real time” dato che non il tempo atteso per passare dal via non conta, o almeno non conta per me.


Sono stanco ma riesco a camminare, urto un partecipante arrivato subito prima o subito dopo di me, ci guardiamo sorridenti e solidali, dove si prende la medaglia? Quella è la prova provata della fatica e dell’essere arrivati in fondo. Eccola, due volontari ci danno una medagliona a testa, con nostra soddisfazione condivisa, non ci eravamo mai visti prima e non ci vedremo poi, però siamo compagni di ventura.
Di Domopak me ne faccio dare due fogli, melius abundare quam deficiere, uno me lo metto come gonna mentre l’altro lo indosso come scialle.
Continuo a seguire docile il percorso guidato. Anno scorso qui in via Verdi al di là delle reti vidi Elena e scoppiai a piangere per la commozione, la stanchezza, la contentezza. Stavolta la cerco ma non la vedo. Mantengo la calma, sto benino, accetto una busta di plastica bianca da una volontaria, la busta di conforto. Dentro un cornetto del Mulino Bianco, un’arancia, una bottiglietta di acqua e una con un succo di mela e pera, non mi piace la pera ma deve essere buono.
Mi dirigo verso la Biblioteca Nazionale per poi riguadagnare i TIR dove ho lasciato lo zainetto. Intanto potrei bere il succo. Provo a aprire il tappo a vite ovviamente sigillato. Non ce la faccio, riprovo, niente da fare, ho le mani quasi congelate. Affianco una signora che osserva i corridori passare e le chiedo un piacere… le tengo l’ombrello mentre lei mi apre la bottiglietta.
Camminando con fatica arrivo al container con l’intervallo di pettorali in cui cade il mio. C’è una piccola folla di persone stanche e affaticate che reclamano il loro numero, e tre volontari che fanno avanti e indietro con lo zainetto corrispondente, qualcuno chiede più numeri alla volta per far prima ma è anche facile capire male il numero nella confusione e quindi fare un viaggio in più anziché in meno. Alla fine riesco ad avere il mio.
Adesso ho il sacchetto con i vestiti asciutti. Il problema è dove cambiarsi visto che sta piovendo. Sotto il container c’è giusto l’altezza delle zampe che lo tengono sospeso, circa un metro. Ci sono già vari corridori che si stanno cambiando alla meno peggio, il problema è che non ci si può neppure sedere per terra dato che è bagnato pure lì: ormai sono ore che piove. Ecco a cosa serve adesso il secondo Domopak: lo stendo per terra e mi ci siedo sopra. Poi comincio a slacciarmi una scarpa. Mi accorgo subito che sarà molto più difficile di quanto immaginassi dato che ho le dita quasi congelate e come non riuscivo a aprire una bottiglietta, non ho la sensibilità per snodare un fiocco triplo. Sono così soddisfatto che non mi scoraggio, lentamente ce la faccio e tolgo una scarpa. E un calzino. Tutto con molta attenzione perché basta uno sforzo eccessivo che arriva un crampo in un qualche posto a caso: piede, polpaccio, coscia. Ripeto con tenacia anche per l’altro piede. Poi tolgo i pantaloncini mi infilo i pantaloni asciutti – che bello, la sensazione dell’asciutto – della tuta. Anche infilarsi i calzini puliti è un’impresa ma alla fine posso rimettermi le scarpe, allacciandole lentamente. Togliersi la maglia UnderArmour è veramente difficile, già è difficile togliersela da in piedi tanto è aderente, figurarsi seduto sotto un container. Comunque riesco a mettermi anche la parte superiore della tuta. A questo punto è fatta e cerco di alzarmi e mi rendo conto che da seduto non ci riesco né riesco, per colpa della stanchezza, a girarmi su me stesso e aiutarmi su quattro zampe. Allora con vergogna mista a simpatia chiedo al vicino se mi dà una mano, non che lui sia messo molto meglio ma almeno è già in piedi, sia pure piegato in due sotto il container. Dopo un paio di goffi tentativi ce la facciamo e sono su due gambe. Raggruppo tutti gli indumenti fradici nello zainetto da cui ho estratto le cose asciutte e esco dall’angusto rifugio.

Mi rendo conto che non si riesce mai a pensare proprio a tutto: sono cambiato e con addosso vestiti asciutti ma non ho un impermiabile per ripararmi dalla pioggia: non avevo previsto che avrebbe piovuto ininterrottamente anche dopo la fine della corsa.
Suona il cellulare. È Elena che era rimasta dall’altra parte della piazza per i vari cordoni di sicurezza. Alla fine mi raggiunge.
Traballante, coperto con difficoltà dall’ombrellino di Elena, arriviamo allo scooter dove abbiamo l’ulteriore prova da superare: indossare la tuta impermiabile. Infine tornare a casa: ma sono in grado di guidare lo scooter, con Elena dietro? Per fortuna il baricentro dello scooter è molto basso e riesco a stare in equilibrio da fermo senza difficoltà. Elena sale. Ancora tutto a posto. Partiamo piano e poi prendo sicurezza e torniamo a casa.

Puntata seguente

Nessun commento:

Posta un commento